Il Club di Milano pubblica, in sontuosa veste tipografica, “Per ragioni di salute“» di Fabiola Giancotti, frutto di una lunga e faticosa ricerca dedicata a San Carlo Borromeo, nel quarto centenario della canonizzazione. Data la ricorrenza, si potrebbe pensare a un’agiografia, ma la Giancotti, studiosa seria e ricercatrice professionale, va ben oltre e realizza un’opera storica, perché dello storiografo utilizza gli strumenti, che consistono soprattutto in una rassegna documentale ponderosa, nell’interpretazione delle fonti e dei documenti, nella collocazione del personaggio nel contesto storico dell’epoca, che rende le azioni correlate e influenti sul quelle dei contemporanei, nel  territorio di una Milano fiaccata da pestilenze e dominazioni straniere originate dalla dissennata politica di Ludovico il Moro. Se le pestilenze avevano decimato la popolazione, lo scisma protestante, non riassorbito dal Concilio di Trento, aveva lasciato la Chiesa in un condizione di crisi organizzativa, oltre che spirituale: sedi vescovili e parrocchie senza preposti, assenza di predicatori, popolo allo sbando e terrorizzato da continue epidemie, e la famosa descritta dal Manzoni era già pronta dietro l’angolo per ricongiunsi alle precedenti in una catena di morte, che lasciava poche speranze. Ma il morbo non piegò mai l’Arcivescovo alla resa e mai lo arretrò dalla genuina e innata sua carità per trincerarsi dietro “motivi di salute”, come fecero altri prelati e ciò spiega il titolo del libro della Giancotti. In tale contesto si trovò a svolgere la gravosa opera apostolica il giovane Arcivescovo ambrosiano. Lo storico Carlo M. Cipolla, nel suo classico Storia economica dell’Europa pre-industriale, ci informa che la popolazione di Milano dai 100 mila abitanti del 1500 era scesa a 50 mila nel 1550 circa. La peste aveva lasciato un segno di desolazione e annichilito la speranza dei sopravvissuti. Unico conforto civile e religioso furono lazzaretti e ricoveri per ammalati, che il Borromeo fece riorganizzare e che il Manzoni ci descrive nella storia dei Promessi Sposi ambientata negli anni della peste del 1630.

A proclamarlo santo ci pensò la Chiesa e non c’è altro da aggiungere, ma, poiché santi si diventa dopo la morte, è interessante considerare le azioni della vita. Indico di seguito solo alcune delle riflessioni stimolate dal libro.

  • San Carlo apparteneva a una ricca famiglia patrizia ben introdotta e influente, che aveva lanciato in carriera ecclesiastica il rampollo più dotato, ben protetto dallo zio papa Pio IV. Il nepotismo può spiegare, ma solo in parte, la carriera fulminante e la sua nomina a Cardinale a 22 anni quando già lavorava nella Curia romana e ad arcivescovo di Milano a 25 anni. Vero è che il giovane prelato era un uomo dotato non solo di grande pietà, ma ancor più di senso organizzativo. Un uomo “operativo”, come si direbbe oggi, pronto a cogliere con spirito pratico i problemi concreti del suo gregge. Un milanese doc, un intraprendente, che però agiva su impulso della carità e non certo per guadagno personale come spesso accadeva ai suoi tempi. Ma c’è un’altra spiegazione, a mio avviso degna di nota. Scrive l’economista Sergio Ricossa nel suo libro  “L’economia in 100 grafici”: «La vita media è raddoppiata o triplicata nei paesi più evoluti. Tenendo conto della mortalità infantile, un tempo altissima, la vita media restò a lungo poco superiore a 20 anni, che sono un minimo perché la razza umana possa riprodursi e non si estingua […] Quando la morte era sempre all’uscio, gli affetti familiari non avevano tempo per consolidarsi» e poiché la morte non guarda in faccia nessuno, anche la Chiesa tendeva a impiegare le “teste fine” il più presto possibile, senza aspettare età ancora fiorenti per noi che abbiamo speranze di vita doppie rispetto a quelle della fine del Cinquecento, invece già vegliarde per i Borromeo. Ma San Carlo non aveva avuto bisogno di particolari raccomandazioni essendosi fatte le ossa in Vaticano negli anni travagliati del Concilio di Trento.
  • Nel 1562 il giovane curiale Borromeo partecipa attivamente all’Accademia delle Notti con altri giovani ecclesiastici di talento si discute di filosofia, diritto, poesia, teologia e varia umanità e si legge e commenta, tra altri grandi autori: Cicerone, Virgilio, Dante, Petrarca, anche Lucrezio e il Principe di Machiavelli. Certi autori la Chiesa li vietava agli uomini del volgo, perché sapeva che avrebbero probabilmente equivocato e strumentalizzato il pensiero, ma non ai cervelli prestigiosi, come i nottambuli accademici, che, poi, fecero tutti carriera nelle gerarchie ecclesiastiche.
  • La cultura teologica  dell’Arcivescovo è documentata nella parte seconda del libro che riporta, talvolta in forma aforistica e di glossario, il pensiero dell’Arcivescovo su vari argomenti, sempre con spirito di cristiana carità. Più che ordini, che pure il rango aristocratico e la gerarchia avrebbero giustificato, si tratta di consigli, constatazioni e riflessioni tratti da sue omelie, predicazioni e interventi in occasione di festività religiose rivolti a tutti e in particolare ai suoi preti, ma coinvolgenti anche aspetti civili. Ne è esempio la voce “Donna forte/Uomo forte”, che così giudica gli uomini del suo tempo, ma, direi, di ogni tempo: «Chi troverà una donna forte?[…] e un uomo forte chi lo troverà?[…]. Iddio creò l’uomo libero, ed egli con che facilità e spensieratezza si sottomise a mille tiranni![…] E però di loro spontanea volontà amano d’esser fatti servi d’un crudelissimo tiranno; alla vista dell’oro perdono l’animo e le forze, si avviliscono a divenir schiavi abbiettissimi[…]. E quanta non è la debolezza di coloro, che sotto il gravissimo giogo dall’ambizione chinano il collo! Quante adulazioni! A quanti padroni devono vergognosamente assoggettarsi per toccar l’apice degli onori e delle dignità che desiderano!». Non intendo confondere tempi e nature d’uomini, ma a me pare sentir parlare Marco Aurelio. Il rammarico dell’Arcivescovo sembra attagliarsi ai tempi attuali, in cui per trovare una “Donna forte/Uomo forte” occorre cercare con la lanterna di Diogene. Il Borromeo non faceva sconti a nessuno e senza riferimenti a “pari opportunità” né “quote rosa”, di cui oggi ci si riempie la testa di aria fritta come fosse una cennamella, considerava l’uomo antropologico senza distinzioni di sesso. L’Accademia delle Notti aveva fatto lasciti anche laici in quei cervelli senza cellulite!

Faccio una considerazione finale: quando si prende in mano un libro non è come toccare un pacco più o meno pesante; si prova un piacere tattile, poi vengono l’estetica con la sua copertina, le iconografie, le riproduzioni documentali. È una sensazione fisica che nessuna pubblicazione  digitale può dare. Nel libro della Giancotti queste sensazioni si provano subito, prima ancora di aprirlo e già vedendo la copertina, dove il busto bronzeo dello scultore Michail K. Anikushin  esprime una plastica figura ieratica, che pare nascondere per discrezione l’interiore carità di un uomo di fede votato all’amore per il prossimo. Poi il libro bisogna aprirlo, sfogliarlo e infine leggerlo per apprezzare i contenuti, frutto di una ricerca che aiuta a capire lo spirito di un aristocratico votato al suo popolo e il momento storico travagliato, che lo vide protagonista.

Ma non basta capire il personaggio descritto. Bisogna anche disvelare lo spirito dello storico che lo illustra, soprattutto quando sa celare dietro l’acribia della ricerca, il proprio giudizio. Questo è anche il merito di Fabiola Giancotti e l’impegno ulteriore chiesto al lettore.