Leggo su “Tuttolibri (La Stampa) dell’11 giugno 2011 un giudizio di apprezzamento di Anacleto Verrecchia del  libro curato da Domino Luciani e Monique Mosser “Petrarca e i suoi luoghi”.  Verrecchia non è un recensore, ma un giudice sereno e imparziale, che sollecita la lettura dei testi sui quali esercita sempre una critica in senso kantiano. È anche un estimatore appassionato delle opere di Francesco Petrarca e un conoscitore dei fatti della vita del poeta, che continua a essere una luce illuminante per la poesia mondiale e per la lingua italiana, uscita dalla sua penna come una Venere dell’idioma, dono di una dea a un popolo che ancor oggi, immemore e immeritevole, trova in essa la vera koinè di nazione. Verrecchia ci ricorda, innanzi tutto, che la musicalità e la malinconia fatta verso poetico della più bella canzone mai scritta Chiare, fresche e dolci acque e dei sonetti che compongono il Canzoniere, non esauriscono la grandezza del Petrarca anche se fanno velo ad altre opere pur di grande valore. A sua volta, Verrecchia non ferma la sua analisi sui soli valori poetici, ma, spinto anche dallo stesso titolo del libro di Luciani-Mosser, ci ricorda fatti salienti della vita del poeta, legati ai luoghi dove lo spirito inquieto e talvolta ramingo lo portò a soggiornare, tra l’Italia spapata e la Francia della cattività avignonese. Sulla spinta di Verrecchia, mi soffermo su un fatto per me istintivo, perché ogni volta che penso a Petrarca risalgo necessariamente a Dante e al terzo della triade, Giovanni Boccaccio, i numi tutelari della nostra nazione. Il gran Giovanni fu estimatore appassionato di Dante e nel 1373 uno dei primi lettori e commentatori della  Commedia in luogo pubblico nella chiesa fiorentina di Santo Stefano di Badia, autore di una Vita di Dante, scritta in tre redazioni, la seconda come rivisitazione della prima dopo aver incontrato Petrarca e stretto con lui un rapporto di sincera amicizia. Si capisce da questa seconda versione che Petrarca era conoscitore non viscerale di Dante e se ne comprende il motivo, perché i due maggiori nostri poeti erano troppo diversi. Petrarca, più giovane, era certo in vantaggio e non è un caso che sia stato il fondatore dell’umanesimo rispetto al tardo medievista Dante, che però già umanista lo era sol che si legga con attenzione e giusto trasporto il canto XXVI dell’Inferno dedicato a Ulisse, in cui c’è tutto il Dante stesso che ci restituisce la figura di Odisseo in chiave personalizzata e moderna, figura condizionata fino all’estremo dall’amore per la scienza, per la scoperta, per l’ignoto, in breve: per l’uomo, che oggi definiremmo off limits. Se si accetta, e io me lo consento, che entrambi siano stati poeti dell’Umanesimo, si può guardare alle loro due donne: Beatrice e Laura. La prima idealizzata da un poeta monolitico nei suoi valori morali fino a simbolo della filosofia dopo la morte di lei. Laura, forse mai esistita, eletta a immagine di un amore certo agognato, molto terreno e già metabolizzato all’epoca di Valchiusa; vero è che il più rilassato Petrarca, mentre idealizzava Laura, trovò il modo di lasciare un segno carnale tangibile in due ragazzotte provenzali, che lo resero padre. Il fascino irresistibile della donna fisica aveva superato Laura e i suoi incomparabili “… capei d’or”. Ma c’è anche una continuità tra i due, che non è di immediata evidenza: è come se i versi immortali e talvolta ispidi della Commedia si sciogliessero nella dolcezza del petrarchesco Canzoniere, e qui mi viene un pensiero ardito: è come, con rovesciamento dei tempi, se il titanismo di Beethoven- Dante si sciogliesse nella dolcezza di un Mozart-Petrarca. Penso anche a un denominatore comune, che sembra una esercitazione di numerologia. Dante scrive nell’incipit della Commedia Nel mezzo del cammin di nostra vita”, cioè a trentacinque anni, e Petrarca scrive “Chiare, fresche e dolci acque…” nel trentacinquesimo anno di età. Sarà anche un caso, ma sembra che il destino di questi due uomini si incroci ben oltre le sussiegose sottigliezze dei critici e le puntigliose acribie degli storici, che, da secoli, esaltano o velano secondo le mode che loro stessi creano, la grandezza della poesia italiana. Ma la poesia non guarda in faccia i critici, ma chi la sa capire e la declama, possibilmente come fa il poeta nel momento creativo. Scrive il letterato ticinese Romano Amerio nel suo ricchissimo Zibaldone: «Io credo che tutte le ambiguità che si riscontrano in passi di Orazio e di Dante dileguerebbero, se potessimo dire quel verso come lo diceva il poeta (e certamente lo diceva) nell’atto dell’invenzione», che è più di un consiglio di lettura, è un invito all’abbandono alla musica, che solo la voce umana riesce a esprimere. È lo stesso consiglio che ci dà Jorge Luis Borges nei suoi “Nove saggi danteschi“: «…i versi, soprattutto i grandi versi di Dante, sono molto più di ciò che significano…Un buon verso non si lascia leggere a bassa voce o in silenzio… il verso non dimentica di essere stato un canto», come già aveva ricordato Orazio nell'”Arte poetica“. Anche al lettore di Petrarca si addice il memento, nonostante la spontanea immediatezza del suono dei suoi versi e la coincidenza tra parola detta e parola scritta.